Pensavo ai riti. Nulla di religioso, benché le pratiche sincretiche ed animiste stuzzicano la fantasia popolare. E, poi, chi non ha mai pensato di mozzare la testa ad un pollo (solo per non doverne vedere il viso in ufficio la mattina dopo)? Ma, queste, son cose serie che non possono essere liquidate in due battute.
Riti, (mal) dicevo. Sono delle forme che racchiudono, nel loro ripetersi, un valore ulteriore rispetto al loro oggetto.
Prima di una gara, per esempio, il caffé che prendevo con un caro compagno era un caffé ben diverso da quello che avrei potuto prendere in qualsiasi momento della giornata.
Anche se per l’avventura (il caffè) faccia schifo ha, in questo specifico frangente, un suo valore non negoziabile. Anzitutto, perché, nei giorni “normali”, il compagno è altrove affaccendato. Aggiungiamoci, poi, l’effetto taumaturgico immaginato nel benefico effetto della caffeina sulla circolazione e sul ritmo cardiaco, benché, sinceramente, non avverta grandi differenze rispetto a quando non si celebrava questa consuetudine. Resto scarsino pure sovraccarico di caffeina.
In realtà, un rito serve solo per volersi bene. È questo il solo effetto che ci si attende.
Le ritualità possono essere tanto individuali, quanto collettive.
Alle prime appartengono quei “misteriosi” comportamenti che tendiamo a ripetere per collegarli ad effetti positivi registrati in passato. La maglietta preferita, il modo di allacciare le scarpe, una colazione ormai codificata (e, guai, se non c’è proprio quella marmellata) e potrei inutilmente continuare.
Le ritualità sono anche collettive ed, in questa dimensione, non appartengono al singolo ma ad un gruppo. La foto della squadra prima della partenza è un esempio minimo.
In questo secondo tipo di riti, la condivisione serve ad essere “riconosciuti” come parti integranti di un “tutto”, di qualcosa che celebriamo anche con la “divisa” sociale, senza la quale non saremmo che una “Run Card” qualsiasi, privi del comune sentire derivante dall’appartenenza.
In questa dimensione, il rito assume un connotato molto vicino alla spiritualità che è faccenda del tutto diversa dalla religione alla quale siamo soliti associarla. Lo “spirito”, per chi crede, anima tutte le cose, senza che dietro vi debba essere una immanente divinità. E’ l’aura dell’esistenza che connatura gli esseri (e le cose) di qualunque specie o tipologia. Noi però abbiamo la coscienza e possiamo, quindi, attribuire un “senso” – per l’appunto, spirituale – ad alcuni oggetti, persone o accadimenti.
L’appartenenza ad un “insieme”, costituito da corridori (e non necessariamente da monaci buddisti) – e la sua dichiarazione esterna – è una questione di “spirito”, di quella positività da sublimare nel compimento dell’attività sportiva.