La telefonata che la moglie di un ciclista non vorrebbe mai ricevere comincia così
“Buongiorno, è la moglie del signor Di Paolo?”
Ecco, quando hai visto tuo marito uscire la mattina in bicicletta e ricevi questa telefonata sai che c’è un unico motivo per cui non è lui al telefono: è stato investito.
Io ho ricevuto questa telefonata il 2 gennaio alle ore tredici circa. In un’unica domanda ho chiesto due cose: “Che è successo, è cosciente?”
Eh sì, era cosciente, e dopo la corsa in ospedale e i primi trenta giorni di prognosi (perché è chiaro non basteranno per guarire completamente) se l’ è cavata con sei costole rotte, varie contusioni e un’amnesia post traumatica, ossia ricorda solo il prima e il dopo. Dell’incidente non ricorda nulla.
Siamo stati fortunati.
Nel 2023, secondo dati Asaps, si calcola che siano stati 197 i ciclisti uccisi nelle strade , senza contare coloro che sono poi deceduti nei giorni successivi all’incidente in ospedale.
La persona che ha investito mio marito non ha dato la dovuta precedenza a destra per entrare in un cancello con divieto di accesso. In un momento ha infranto più regole del codice della strada.
Ai vigili ha detto ” Non capisco perché non ha frenato”.
In questa risposta percepisco l’atteggiamento arrogante che ormai pervade la nostra quotidianità. Non sei mai responsabile delle tue azioni. La colpa è dell’altro.
Una bicicletta, andando a trentacinque chilometri all’ora, impiega cinque secondi per percorrere cinquanta metri e puoi non avere lo spazio di frenata se qualcuno ti sbarra la strada.
Il punto è che le nostre strade sono pericolose, ma non solo per i ciclisti.
Le nostre strade sono pericolose per manifesta maleducazione.
Nei paesi del nord Europa, dove eppure le temperature invernali sono ben più rigide delle nostre, i cittadini sono abituati ad andare al lavoro in bicicletta e gli amministratori comunali investono sulla mobilità sostenibile.
Si chiama “bike to work” la sana abitudine di andare al lavoro in bicicletta. Se ne guadagna in salute, si economizza e si rispetta l ‘ ambiente.
Ma quest’ abitudine non è sicura nel momento in cui non si ha una visione collettiva del futuro e del bene pubblico. Ed è così che il ciclista in strada diventa fastidioso, imprechiamo se ingombra la carreggiata, imprechiamo se parla con il compagno, ma soprattutto ci infastidisce che stia passeggiando, mentre noi invece abbiamo fretta di arrivare dove diavolo dobbiamo arrivare. Diventiamo invidiosi di quel tempo spensierato che lui si concede. Come se lo rubasse a noi.
In una società competitiva e arrogante non ti viene da dire “Sai che c’è? Da domani voglio provare anche io ad andare in bicicletta al lavoro” più facile che si dica “Mo l’arroto sto cretino” e capita che qualcuno ci finisca davvero sotto le ruote.
Quest’ anno ci sono finiti in 197.