La scuola, e chi la fa, spesso viene considerata il luogo polveroso della tradizione, dove stanchi esseri umani girano stanche pagine durante stanchissime ed interminabili ore trascorse in stanche classi.
Dove è stanca l’aula quanto chi la popola, dall’una e dall’altra parte della cattedra.
Bene, spesso è davvero così. Anche quest’anno, a cui hanno scippato maggio, ci si avvia verso la fine con il giusto grado di stanchezza, nonostante non ci sia, almeno fino ad ora, l’aggravante del caldo ( “in aula non si respira”, “ormai questi come li tieni?”, “Non si può far lezione in un forno!” e via lamentandosi ).
Ebbene, esistono ricche alternative a questo mondo che sembrerebbe imporre un punto di vista statico, del tutto immune alla società che si muove verso direzioni diverse se non opposte: circa dieci anni fa due “visionari” molto lungimiranti e infallibilmente pratici, Lidia Cangemi e Ottavio Fattorini, dirigenti scolastici romani, hanno creato, su una solida base di studi sulle neuroscienze e su una serie molto sensibile di considerazioni, il metodo Dada, che sovverte il rapporto docente studente, triangolando gli attori dell’universo scolastico e dando pari dignità al terzo elemento: l’ambiente. O meglio, per l’appunto, l’ambiente di apprendimento.
Quante volte abbiamo pensato che le aule non sono all’altezza, sia da alunni che da insegnanti?
Che la staticità della scuola tradizionale abbrevia tempi di attenzione e veicola noia, fatica e gap tra realtà e lezioni? Molte. E, oltre a pensarlo, lo viviamo, quotidianamente. Il metodo Dada ( ma mi viene da dire, proprio per rendere più scoperto, da subito, un punto di vista opposto, rovesciato, il “Dada metodo” ) prevede che gli alunni non “possiedano” più la propria aula ma che viaggino, durante la mattinata, da un ambiente di apprendimento ad un altro.
Il che significa che esisteranno varie aule / laboratorio: da quello di arte a quello di scienze ( spesso presenti già in molte istituzioni scolastiche ) fino a quelli di lettere, matematica, musica, tecnologia, lingue e l’elenco potrebbe continuare ( filosofia, chimica, lettere classiche, fisica…) all’infinito, o meglio fino a terminare gli spazi disponibili nei vari plessi.
Cosa ne deriva? Immediatamente la possibilità di istituire setting dedicati alla singola disciplina, con i materiali necessari, specifici della materia o del gruppo di materie, di cui ogni docente avrà indubbiamente maggior cura rispetto al sistema delle aule tradizionale.
Con la possibiltà di inventare un layout diverso a seconda dell’attività, con sedute diversificate a partire dalla esigenze della disciplina. Dal punto di vista dei ragazzi, invece, si avrà la capacità di rinnovare concentrazione e consapevolezza ora dopo ora, un po’ grazie al passaggio di aula in aula che fungerà un po’ da risveglio neuronale e fisico ( il corpo e il cervello fanno parte dello stesso organismo anche se si tende a dimenticarlo…), responsabilizzando gli alunni e dando loro un’identità di percorso come se, appunto, “andassero a cercarsi il sapere” piuttosto che subirlo, lezione dopo lezione, sempre seduti allo stesso posto, con la stessa testa davanti che impedisce buona parte della visione della lavagna o del professore e lo stesso chiacchericcio dietro.
In Italia, al momento, tra istituti comprensivi e scuole superiori, esistono almeno 150 scuole Dada: un’escalation piuttosto irresistibile che sta cambiando il modo di fare scuola, o quantomeno di pensarla e metterla in discussione ogni giorno. E i ragazzi, in questi giorni nei quali stiamo sperimentando il metodo, continuano a dirci: “Prof, ma sono passate già sei ore? A me sembra di essere entrato un’ora fa!”
Il rovescio della noia. L’opposto della stanchezza.