Passeggiare leggeri. Con il cuore in pace.
Ascoltare la pioggia arrivare.
Farsi colpire docilmente sulle guance dalle prime gocce.
Ripararsi sotto una pensilina sempre troppo piccola. E poi in uno slancio di coraggio decidere che bagnarsi non è poi male sentendo al contempo il profumo dell’aria che cambia.
Continuare, così, sotto una ‘gnagnerella’ quasi gradevole il proprio viaggio senza meta.
Entrare in un forno antico. L’odore del pane che ti ha conquistato già diversi metri prima.
Il sorriso di un uomo in maglietta sporco di farina che ti prende la pizza e la adagia a mani nude su un foglio di carta oleata.
Mangiare camminando assaporando un pasto frugale mentre il sole torna a splendere caldo ricordandoti che non esiste un inverno più bello di quello di Roma.
Guardare in alto e poi dritto a te i volti delle persone. Immaginarne i pensieri, le vite. Anche quelle nascoste.
Percepire i tuoi passi. L’andatura che cambia.
Entrare in un negozio di strumenti musicali.
Sentire, prima dei suoni, il profumo dei legni delle chitarre parlare raccontando di sé.
Poggiare le mani senza paura su pezzi antichi.
Fartene raccontare le gesta da genti appassionate. Che ti regalano consigli, come vecchi alambicchi preziosi, aneddoti di una musica che già non è più lei.
Passare da un rione ad un altro, strada dopo strada, incontrare amici, conoscenti. Abbracciarsi. Sorprendersi.
Parlarsi nelle orecchie bisbigliando segreti mai detti, progetti e pettegolezzi innocenti.
Invitarli e sognarli al concerto del giorno dopo che hai composto con i musicisti di una vita.
Ed aspettare le prove generali con la stessa adrenalina ed emozione di quando, a quindici anni, sei salito sul palco della tua scuola e hai impugnato quelle bacchette tremanti per la prima volta sul serio.
Sapere di dover sudare quel compenso che ti verrà riconosciuto e che quei ritmi avranno animato figure giovani e meno giovani farcite di cocktails assaggiati a turno.
Ritornare in te e decidere di rimetterti in marcia. Che è tempo di tornare a casa.
Per riconoscersi nello sguardo di un bambino che ti chiede di giocare.
Ma prima per incontrare una sequenza di visi anch’essi familiari, con quelle routine piacevoli che non puoi più trascurare.
Quel caffè preso per abitudine, quella frutta, comprata al solito posto, accarezzata e scelta con cura con un olfatto censore, e poi il profumo dell’androne pulito, delle piante cresciute al riparo dalle correnti dei terrazzi.
Quell’androne nel quale ti tuffi mantecando il tutto con il suono delle scale di marmo che conosci a memoria.
Scalino dopo scalino.
Ansimi ma meno del giorno prima.
E sei pronto. Ad ascoltare la voce della porta che ti dice che puoi entrare e che puoi sentire nitidamente il suono della musica, il tuo cane che arriva, una voce che ti saluta e finalmente l’odore di biscotto della pelle di tuo figlio che ti dice che sei al sicuro nel posto che hai costruito.
Senza, in fondo, da quell’istante in poi, desiderare altro.
Mi auguro questo per il 2022.
Un anno vecchio di due anni.
Senza mascherine. Senza limitazioni.
Con i vecchi profumi di una vita che sembra una vita fa. Senza doverli ricostruire in una mente colpita dagli accadimenti.
Con i visi pieni di ‘espressioni’.
Con le carezze e gli abbracci che sembrano non essere mai esistiti.
Senza parole nuove che fanno paura.
Che devi interpretare non avendone mai la necessaria competenza.
Mi auguro di vivere nuovamente i ricordi nitidi di un giorno qualunque che non è più un giorno qualunque.
Auguri a tutti.
Spero che il progresso sia in grado di riportarci al passato.
A qualsiasi passato sognamo.
Io, a quel progresso, mi ci affido, speranzoso.