Nel febbraio 1944 Umberto aveva 26 anni era bellissimo e paraculo come solo i giovani romani sanno esserlo.
E’ il primo di cinque figli di una famiglia ebrea, proprietaria di un negozio di abbigliamento in via Alessandria; le leggi razziali e l’ occupazione nazista, costringono la famiglia a dividersi.
Umberto medita di fuggire in Svizzera. Il fratello Leonardo di un anno più piccolo vive nascosto con la moglie Gemma in casa della suocera Anita in via Reggio Emilia, da poco hanno avuto un figlio, Settimio detto «il baroncino».
Alle elementari di Via Montebello Umberto aveva tra i suoi compagni di classe Luciano, presto diventato un amico.
A lui Umberto si rivolge per essere aiutato ad espatriare. Luciano gli fissa un appuntamento all’incrocio tra viale Manzoni e via Emanuele Filiberto. Pieno di speranza Umberto vi si reca ma, al posto dell’ amico, trova gli agenti delle SS che lo arrestano e lo portano in via Tasso.
Da quel giorno inizia la sua odissea, da via Tasso finisce a Regina Coeli dove riesce a scrivere una lettera alla suocera (non essendo ebrea non correva rischi), la cognata, Gemma, corre al carcere ma Umberto era già stato trasferito, senza soldi e con i vestiti che aveva indosso, a Fossoli in provincia di Modena dove la Repubblica di Salò ha allestito un campo di concentramento.
Da Fossoli Umberto scrive ad amici e parenti per chiedere, con molta vergogna, soldi, vestiti e cibo; cerca di rassicurare tutti sulla sua salute e conclude sempre con un abbraccio a suo nipote «il baroncino».
Le ultime notizie sono 5 righe scritte a matita in fretta su un foglietto con data 5 aprile 1944: «Cara Gemma, ti scrivo nell’ora della partenza, sperando che questa mia ti pervenga. Tanti baci a tutti voi e niente paura. Umberto».
Da quel giorno nessuna altra notizia. Luciano, che di cognome si chiama Luberti, fa invece «carriera».
Durante l’ occupazione si rese responsabile di torture, maltrattamenti, persecuzioni personali, abusi sessuali ed esecuzioni nei confronti di circa una sessantina di partigiani e di civili e si merita il soprannome di Boia di Albenga; con la liberazione viene condannato a morte, condanna tramutata in ergastolo e, con l’ amnistia, a 7 anni di carcere militare.
E’ stato accusato di aver ospitato gli esecutori della strage di piazza Fontana (dicembre 1969 a Milano) e degli attentati dinamitardi che nello stesso giorno erano stati compiuti a Roma; Luberti, militante del Fronte Nazionale, viene ritenuto incapace di intendere e di volere dal criminologo Aldo Semerari (morto decapitato, noto per le sue perizie psichiatriche a fascisti e malavitosi della banda della Magliana), condannato all’internamento per due anni nel manicomio di Aversa, fa perdere le sue tracce; muore, di vecchiaia e in libertà, il 10 dicembre 2002.
Il fratello di Umberto, Leonardo, ha gestito il negozio di famiglia in via Alessandria insieme al fratello Angelo e alla moglie Gemma. E’ morto nel 1984, i loro figli sono gli eredi, tra cui Settimio, il «baroncino».
Nel 1999 hanno bisogno per motivi fiscali di sapere ufficialmente che fine abbia fatto Umberto e dopo qualche ricerca tramite la fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea (C. D. E. C), arriva il documento che certifica che Umberto è arrivato il 15 aprile 1944 ad Auschwitz e lì «marchiato» con il numero 180110 è morto il 28 agosto del 1944.
Il «Baroncino» nient’altri era che nostro padre.
Silvia, Lorenzo, Daniele, Marta e Gemma.