Se c’è un mestiere che sta attraversando una sorta di Medio Evo, è senz’altro quello del docente. Ci sono mestieri che non tramontano mai, a livello di collocazione all’interno della società, altri che avanzano nella scala del prestigio o comunque della ricezione da parte della società stessa.
Il docente arranca.
L’aggettivo cui viene spesso accomunato è: precario. Ed ecco che l’immaginario collettivo visualizza questo docente spettinato ( quando non con i capelli grassi ), affannato, con una borsa a tracolla, visibilmente provato da un pendolarismo coatto e poco ripagato, sia a livello economico che di appagamento.
I social e la tv stanno peggiorando le cose.
Da una parte “Il collegio” che nel suo radicalizzare presunte regole anni ’60 non fa che sottolineare lo iato tra l’esistente e la scuola “come era una volta”. Una sorta di gioco di differenze che non a caso diverte non poco i giovani e chi in classe ci sta per metà giornata.
Dall’altra, proprio ad avvio anno scolastico, i video virali che ambientano casi patologici in contesti di classe diffusi ad arte, e qui la rabbia sale.
Non me la prendo con i ragazzi che deridono la docente.
Non me la prendo con la docente o con la sua dirigente.
Ma con chi ( ingenuamente? Maliziosamente? ) non fa che far girare questo video contribuendo a gettare fango sulla professione e sul professionismo.
E’ vero che in classe a volte entrano casi umani.
E’ vero che l’anno di prova al momento del passaggio in ruolo non viene sufficientemente reso significativo.
E’ vero che sapere non significa saper comunicare.
E’ vero che saper comunicare la materia non significa necessariamente essere empatico e trascinante.
E’ vero che ci sono docenti ancora abbarbicati sui compiti a casa e che non hanno alcuna voglia di sperimentare strategie didattiche al passo con i tempi.
E’ vero che ci sono docenti che cercano di perdere tempo in ogni modo quasi avessero paura di affrontare sessanta minuti con la classe davanti.
E’ vero che ci sono docenti che lavorano sul non lavoro, sognando ponti e festività, giorni liberi e “il lunedì non posso entrare presto perché viaggio e il venerdì non posso uscire tardi perché torno a casa”.
E’ vero che tra le skills richieste ad un insegnante ce ne sono molte che nessun corso di studi insegna ad imparare.
Però.
Però.
Però.
Ho visto e vedo docenti a cui brillano gli occhi quando ritrovano la classe che avevano l’anno precedente.
Li ho visti scrutare i ragazzi nei loro micro cambiamenti, nei loro batticuori, affiancarli nelle botte della vita, raddrizzare il tiro e la traiettoria, piegare, elasticizzare, mutare, il loro approccio a seconda di chi hanno davanti.
Li ho visti scordarsi il loro essere statali, le loro 104, gli scioperi le assemblee sindacali e i giorni di permesso per appassionarsi e far appassionare alle lezioni.
Ho visto persino docenti assertivi!
Ho visto docenti preoccuparsi di occupare per bene, con dignità ed impegno e stimoli continui gli interi sessanta minuti di lezione.
E ho visto docenti a cui i sessanta minuti non bastano.
E preoccuparsi di come si viene ricevuti.
Non citerò Kant ma Fiorella Mannoia: quando le si chiedeva come mai risultava così emozionante quando canta, lei rispondeva sempre – almeno negli anni ’80 – con una credibilità oggi forse fuori moda: “perché sono io la prima ad emozionarmi”.
E allora in questo primo quadrimestre ( o trimestre ) cerchiamo di approcciarci all’aula come si va a Sanremo, con eleganza e dignità, con la voglia di emozionare ed emozionarsi fino al suono della campanella cercando di dare senso ad ogni segment temporale del nostro stare in classe.
Senso e sensibilità.
Elvio Calderoni