Il mio nome è Alì

Ci sono storie che hanno lo stesso colore di una foto in bianco e nero: un contrasto perfetto, i due estremi nel quale uno non potrebbe esistere senza l’altro.. bianco come la luce e nero come il buio… o come il giorno e la notte.

Come il buio che a volte ci portiamo dentro o come quella luce che illumina all’improvviso un strada ed un destino.

Ci sono storie che iniziano per un destino che forse nessuno aveva scritto ma che per “caso” per puro caso, hanno fatto la storia, una storia in bianco e nero.

È il 1954 un ragazzo di dodici anni pedala su una bellissima bicicletta, una vecchia Schwinn bianco e rossa: gliel’ha regalata il padre.

Il ragazzino si chiama Cassius Clay e sta pedalando ad una fiera nella sua Louisville.

Il destino quel giorno vuole però che la bici gli venisse rubata, scatenando così l’ira del ragazzino che si rivolge alla polizia. A fatica riusciva a trattenere le lacrime.

Il ragazzino descriveva il furto come il suo unico bene su questa terra, dicendo che avrebbe picchiato chiunque avesse rubato di nuovo.

Il poliziotto rispose: “Bene prima di minacciare le persone però dovresti imparare a combattere come si deve”.

Il poliziotto allenava pugili e Cassius si iscrisse in quella palestra dove tutti combattevano.. Nacque tutto da lì da una bicicletta rubata e dalla rabbia di un ragazzino per quel gesto.

Si perché Joe Martin, il poliziotto in questione, calmò il giovane alquanto esuberante e lo convinse ad allenarsi, diventando così il suo primo allenatore per i sei anni seguenti a quel fatidico furto.

Quello che dimostrò fu di avere un gran talento, un dono (era veloce entrava ed usciva dalla traiettoria dei colpi dei suoi avversari come una farfalla), che di lì a breve lo avrebbe portato a diventare un campione, un campione del mondo.

E più combatteva e più sembrava imbattibile.

Ma nel suo cuore batteva un cuore grande, grande come il suo nome o forse anche di più.

Appena diciottenne Cassius vinse l’oro olimpico a Roma era il 1960 e, quattro anni più tardi, conquistò il titolo dei pesi massimi: ne fece le spese il leggendario Sonny Liston. Aveva 22 anni. La sua espressione, con gli occhi spalancati ed increduli, fece il giro del mondo.

Nel 1964 Cassius si convertì alla religione islamica. Pensava che il cristianesimo era stato imposto ai neri durante la schiavitù e voleva una religione che fosse davvero sua. “Cassius è un nome da schiavo” affermò. “Ed è per questo che da oggi mi chiamerete Muhammad Alì”. ( Muhhamad significa degno di lode e Alì significa altissimo)

E non riconoscendosi più nei valori di una società che stava ormai togliendo qualsiasi libertà a uomini e donne di colore si proclamó portavoce degli oppressi.

Proprio in quel periodo c’era la guerra in Vietnam e fu richiamato alle armi, ma a causa della sua fede religiosa lui rifiutò “ perché la parola Islam significa pace” spiegò.

Per questo suo rifiuto fu arrestato e privato di tutti i suoi titoli sportivi e gli fu tolta l’autorizzazione a fare pugilato. Per tre anni non partecipò a nessun combattimento.

“ La mia coscienza non mi permette di sparare a mio fratello o a persone più scure di me, affamate in mezzo al fango, in nome della grande e potente America. Per quale motivo gli dovrei sparare?”

Fu quello uno dei momenti più bui della vita del campione.

Ritornò a combattere dopo 3 anni e diventó campione mondiale nel 1974 in seguito alla leggendaria battaglia di Kinshasa contro il rivale Foreman.

La sua carriera cominciò però a subire un lento declino, fino al suo ritiro nel 1981. Con il suo addio al mondo della boxe non scomparve però l’impegno sociale, che proseguì anche negli anni seguenti, anni nei quali contrasse il morbo di Parkinson.

Quel ragazzino ne aveva fatta di strada non era più un semplice ragazzo scuro o “negro” come avevano osato chiamarlo era ormai un campione che aveva girato il mondo e portato sempre con se un messaggio di pace.

Alì il grande Ali’ ultimo tedoforo della fiaccola olimpica nel 1996, ad Atlanta dove tremante e destabilizzato dalla malattia, accese la fiamma olimpica ed un applauso universale si levò dallo stadio.

Alì alzò la fiaccola al cielo, fiero in volto come lo è sempre stato, con l’espressione di chi ha finalmente vinto il suo match più importante. Continuò a combattere le sue battaglie di pace, in difesa dei diritti civili, rimanendo sempre e comunque un simbolo per la popolazione di colore americana.

“Io sono l’America. Sono la parte che non volete riconoscere. Ma vi dovrete abituare a me: un nero molto sicuro di sé, aggressivo. Con il mio nome, non quello che mi avete dato voi, la mia religione e non la vostra, i miei obiettivi. Abituatevi a me”.

Nel 2000 l’ONU lo nominò Ambasciatore di Pace.

Ci sono storie che nel loro piccolo hanno cambiato il mondo, storie di miti leggendari  che hanno avuto il coraggio di essere unici.. di cadere al tappeto di rialzarsi più forti di prima.

Ci sono storie che seppur in bianco e nero hanno e avranno per sempre il colore dell’ugualianza.

Dominga Scalisi

(AP Photo/Michael Probst)