Carlo Molfetta ci racconta la bellezza del Taekwondo

Londra, 11/08/2012. XXX Olimpiadi London 2012. Taekwondo +80kg. Carlo MOLFETTA batte il tagico Alisher GULOV 7-3 nel turno preliminare. Foto di Simone Ferraro / GMT

Oggi impariamo a conoscere meglio il taekwondo, un’arte marziale che è diventata sport olimpico ufficiale dall’edizione di Sydney 2000.

Lo facciamo con Carlo Molfetta, un atleta che ha vinto tutto quello che c’era da vincere nella categoria +80 kg, e che ha coronato la sua carriera con la medaglia d’oro ai Giochi Olimpici di Londra 2012.

Oggi Carlo è Team Manager della Nazionale italiana di taekwondo. Ed è proprio in vista di Tokyo 2020 che ci piace sapere di più di un’arte marziale con 2000 anni di storia.

Ci sono voluti 20 anni per essere ammessa alle Olimpiadi. Cosa è cambiato nella visione di questa arte, tanto da essere eletta a disciplina olimpica?

In realtà non credo sia cambiato qualcosa, semplicemente abbiamo iniziato ad avere i numeri dalla parte nostra in ambito mondiale, quindi è normale che nel momento in cui uno sport diventa così praticato e magari con delle regole facilmente intuibili, questo può essere un punto di favore perché rientri nel programma olimpico.

Carlo Molfetta corona il sogno olimpico © ALBERTO PIZZOLI/AFP/GettyImages

I tuoi successi fanno parte del cambiamento, almeno in Italia, in termini di partecipazione?

Sì, subito dopo Londra c’è stato un boom e chiaramente la mancanza poi di atleti all’edizione di Rio 2016 è stato un colpo non indifferente per il movimento del taekwondo italiano. Ma adesso, come dico sempre, bisogna cercare di guardare avanti: abbiamo tre atleti qualificati, considerando anche Antonino Bossolo alle paralimpiadi, quindi è normale che i risultati fanno sì che uno sport venga seguito di più e poi praticato.

Senti un po’ la responsabilità del campione? (questa domanda la facciamo sempre a chi ha vinto tanto e ha fatto da guida alle scelte atletiche di molti)

Certo ma non non è un peso, è un piacere sapere che tanti ragazzi mi seguono per le mie vittorie, che mi prendono come esempio, ed è normale che hai la responsabilità di non fare cose al di fuori degli schemi perché dall’altra parte ci sono dei ragazzi che hanno bisogno di esempi puliti.

Un’arte che nel suo nome porta il suo significato: colpire, pugno, disciplina. Una vera filosofia di vita volta alla consapevolezza di sé.

Il taekwondo è l’arte di dare calci in volo e pugni, e non è altro che un’educazione al rispetto, perché, in quanto arte marziale, la prima cosa che ti insegna è il rispetto.

La cultura coreana, da cui deriva il taekwondo, così come quella orientale e a differenza dell’occidentale, è colma di rispetto per l’avversario, per il lavoro, per il prossimo, e questa è una cosa che io mi porto dentro da quando sono bambino; i maestri la insegnano, di conseguenza è importantissimo che entri dentro di noi fin da giovani.

Quanto dovete fare i conti con le nuove discipline (penso alla MMA) salite alla ribalta della cronaca dove giovani impreparati mentalmente le elevano a forme di violenza stradale?

Pongo sempre un un muro davanti a questa associazione di concetti, rispetto tutti gli sport, così come rispetto anche l’MMA, consapevole del fatto che poi gli stupidi ci sono sempre, ci sono nel taekwondo, ci sono nel pugilato e nel calcio.

La violenza stradale non la fa lo sport, ma lo stupido, lo stolto, il violento, l’idiota e di conseguenza chi usa la violenza in strada non è perché l’ha appresa dallo sport ma da un’educazione sbagliata in famiglia; non c’è nessuna associazione tra sport e violenza, anzi probabilmente uno stupido tenderà a fare un sport da combattimento perché lo vorrà utilizzare  per scaricare la sua repressione nella vita, ma in realtà poi sono persone che durano poco perché dovranno sottostare a delle regole e ciò non li farà andare avanti nello sport come atleti.

Riuscite a fare vostri alcuni territori di disagio sociale e a diventare guida per crescere nel rispetto ragazzi altrimenti abbandonati a se stessi?

Assolutamente sì, la federazione internazionale di taekwondo nel ramo Humanity è impegnata in progetti con questo fine nei paesi poveri e nelle zone difficili in Italia, cercando di indirizzare i ragazzi ed educarli grazie allo sport, in questo caso grazie al taekwondo.

Il taekwondo è un’arte molto spettacolare, atleticamente su cosa lavora un maestro per arrivare a far fare quelle evoluzioni agli atleti anche agli inizi?

È un’arte in completa evoluzione, come lo sport e ci insegna non bisogna mai sedersi pensando ormai di sapere tutto di questo sport, perché è proprio il momento in cui resti indietro.

Essendo uno sport che richiede all’atleta evoluzione, mentre prima c’era solo un maestro che ti insegnava a tirare calci, faceva un po’ di propedeutica per una crescita fisica, oggi l’atleta lavora con più figure nella fase di preparazione che gli permettono di allenare il muscolo affinché lui possa fare delle evoluzioni.

La professionalità è un aspetto importantissimo, e l’evoluzione ti obbliga a dare ad ognuno il proprio ruolo al fine di far diventare un atleta un professionista.

Si può iniziare a tutte le età e si può seguire fino a quando…

Non c’è limite, non c’è un’età da cui cominciare, ovvio che se inizi a trent’anni probabilmente non potrai fare il professionista, non potrai fare l’atleta di alto livello, potrai allenarti per il fine di stare bene con te stesso, con il tuo corpo e prima inizi, come tutte le cose come tutti gli sport, prima automatizzi tutti i gesti e prima li fai al meglio.

Suggerisco di iniziare presto, io ho iniziato a cinque anni ma comunque dai quattro agli otto anni è un’eta ottimale. Si può praticare tutta la vita: il mio maestro ha quasi ottant’anni e ancora calcia come se fosse un giovanotto.

Vito Dell’Aquila – Antonino Bossolo (PARATAEKWONDO) – Simone Alessio

Tu da campione olimpico che cosa ti aspetti dai nostri due atleti? E quanto conta esserci su quel tatami a Tokyo per un’edizione forse tra le più complicate di sempre?

Su questo sono d’accordo: l’edizione di Tokyo è veramente molto complicata, da atleta non so quanto l’avrei potuta vivere bene, non invidio gli atleti che andranno a Tokyo per una Olimpiade.

Però è un’Olimpiade quindi c’è il peso, il carico di voler far bene perché viene dopo cinque anni e dai miei atleti mi aspetto che riescano a fare quello che possono fare, sono grandissimi campioni e quindi non non mi faccio aspettative di risultato ma per un semplice motivo, perché credo che bastino le loro di aspettative, quelle che loro si pongono.

Mettere un carico maggiore anche da parte mia o comunque dallo staff è un errore perché andrebbe a gravare ancora di più sulla loro prestazione e sul fattore mentale.

Mi fido di loro ciecamente, hanno fatto una preparazione ottimale e sono convinto che possano fare molto bene, quindi quello che mi posso augurare è che loro vadano lì e si divertano e che quel giorno riescano a portare a casa il miglior risultato possibile.